mercoledì 10 maggio 2023

Io sono mia, un po' di più


 

Milano 13 aprile 2023


Un giorno, tanto tempo fa, un pomeriggio del 1981 abbiamo abitato insieme nella casa occupata di via Guerrazzi n.10.

Io avevo 24 anni, tu Marisa, 32. Fluttuanti nelle nostre vite in cerca di un corso da perseguire: doveva avere a che fare con l’arte, il teatro, la pittura. Tu stavi in un momento di crisi e hai trovato rifugio in quella casa di nessuno. A dire il vero una vecchia proprietaria ce l’aveva e quando ci incontrava ci insultava (a ragione) e prendeva a ombrellate. Noi cercavamo invano di spiegare che lei era ricca e noi poveri.

In quel luogo sospeso a un quarto piano tra l’Arco della Pace e il parco Sempione, ci siamo incontrati su un foglio di carta.

Ho disegnato la figura di un ragazzino e di una ragazzina, forse adolescenti, con gli sguardi persi davanti a sé in quel futuro incerto, tra il precariato economico e l’aspirazione a vivere di arte. Eravamo noi due.

Era un aprile con nuvole intorno, persi tra quei palazzi di una Milano- bene. Hai disegnato quei muri come case fantasma, dove noi eravamo solo “ospiti” passeggeri.

Le nuvole giravano anche dentro le nostre teste, preoccupazioni, paure e ansie che tu hai riversato col colore blu. E poi quell’acqua sotto uguale al sopra, dove immergevamo i piedi, senza appoggi. La vita in equilibrio tra gli anni settanta appena finiti e che avevano tracciato in ognuno di noi i solchi di grandi utopie e speranze e sovvertimenti, di cui anche le nostre piccole vite avevano partecipato, ne portavano ancora i segni, di ideali a volte più grandi della nostra capacità di integrarli ai nostri giorni.

Hai colorato con tinte leggere i vestiti modesti, i miei di certo stropicciati.

Che facce tristi, perché non tutti i giorni sono gioiosi, ma a quella sospensione hai dato tinte forti, quelle che chiedevamo per le nostre vite future.

Entrambi abbiamo fatto ciò che abbiamo desiderato: vivere della nostra arte, per te la pittura, per me più il teatro, e questo per noi non è poco.

Ora tu sei partita, io ancora qui. Le strade si incrociano e ci disperdono ma su questo foglio resta la traccia del nostro indelebile incontro.


Danio Manfredini

giovedì 28 luglio 2022

Però la morte...

 

Tarocco  (tempera)

"Però la morte, secondo me, è sempre anche qualcos'altro. E' anche tutta la sedimentazione dell'immaginario della nostra civiltà intorno ad essa. In tutte le culture che ci hanno preceduto, lo spazio culturale e mentale occupato da questo avvenimento fondamentale della vita di ognuno, è sempre stato molto ampio. Ora invece questo spazio di rappresentazione mentale si è ristretto, quasi annullato. Credo che nella nostra civiltà, ci sia un'immagine da un lato definitiva della morte, perché sono scomparsi o comunque affievoliti gli immaginari religiosi, i sentimenti oltremondani e insieme agli immaginari collettivi di oltre la morte, anche le fantasie individuali di ogni altrove. In qualche modo è stata uccisa la morte. Nel senso che non riuscendo a immaginarci oggi la morte ed i suoi spazi, la neghiamo. E' talmente terrorifico il nulla che in qualche modo dobbiamo esorcizzarlo; al suo posto c'è il mito della scienza, il mito dell'ibernazione, il mito dell'onnipotenza, dell'uomo sempre in forma, perfetto, e nessuno parla più di morte. Il disastro antropologico del negare la morte come ultimo passaggio di estrema trasformazione, ne produce secondo me un altro ancora più grave. Stiamo perdendo la capacità di immaginare tutti gli 'Oltre' possibili. Ci impedisce di immaginare i 'passaggi' come momenti che possiamo gestire in maniera trasformatrice, in cui mettere in moto degli aspetti, delle energie di trasformazione, oppure anche mettere in moto delle immaginazioni di tipo utopico. Non riusciamo a pensare alla morte ma non c'è più neanche l'oltre la morte. Anche nel senso di utopia."

Marisa Bello

Incisione puntasecca


mercoledì 27 luglio 2022

Donne del nostro tempo

 

Donne del nostro tempo

Di Antonio Attisani


Innanzitutto qui è all'opera l'arte dell'osservazione, da Aristotele a Brecht e oltre posta a fondamento non soltanto del teatro ma di ogni linguaggio e poetica. Marisa Bello pratica il gioco che consiste nello spiare e ritrarre gli altri, soggetti inconsapevoli che poi sfilano in affollati quaderni dove ogni volto e ogni corpo sono molto dettagliati, segnati, molto più che nei quadri della teoria finale: l'abbondanza di segni, lì, è annotazione, prima glossa critica. Il gioco si trasforma poi in una meditazione e ciò che risulta da questa meditazione è una essenza di forma e di colore, un vedere nell'altro la propria autobiografia: l'azione di ogni vero artista.


L’autobiografia, la vita che corre raccontandosi ed esponendosi, è una autobiografia corale. Non parlo mai di un “io” quando parlo di me; non trovo mai un “me” quando indago il mio “io”. È piuttosto nella dimensione del noi (un noi avvolto nell’anonimato di azioni e ritmi inconsapevolmente condivisi) che sprofonda ogni consapevole autobiografia, lasciando esalare dai propri soggetti autografi qualcosa di terzo, quel qualcosa che viene evocato quando davvero accade un teatro.


I contributi raccolti in questa mostra sembrano rinviare tutti a “qualcosa di terzo”, qualcosa che va al di là delle appartenenze singolari e delle private biografie e che insiste come un cuneo appuntito e tenace nelle pieghe di una immagine collettiva, neo-comunitaria, di donne del nostro tempo.


È la declinazione femminile di una pratica poietica, se è vero che non si è poeti per declamare versi, ma per sentire corpi fremere e rivoltarsi nell’atto di una creazione condivisa.


L’esperienza del guardante-lettore ha senz'altro qualcosa di meno potente rispetto a quella del testimone-artista, però il soggetto dello spectare ha facoltà di “mettere in fila” (creare teoria) e rimontare i singoli testi in una visione panoramica.


Come in un Nātyaśāstra, Marisa compila un catalogo di sentimenti e posture esistenziali. Rispettando il mistero, però: contempliamo il vivente, ma senza comprendere appieno il suo carattere e la sua azione.


Donne e colori, gioie e dolori. Ognuna di esse emana un colore dominante ed è contestualizzata in un colore diffuso, un rasa (sapore) deuteragonista. La nudità, poi: quella della pelle è impossibile e si rivela piuttosto nei panni in cui accuratamente ognuna di loro ha scelto di comprendersi.


Donne a volte in posa oppure colte in istantanee, poco importa, è come se tutte avessero scelto accuratamente come essere ritratte nell'atto di offrire la loro più sincera ed enigmatica intimità. Non si intravedono mai drammi evidenti, né commedie o tragedie, ma una quotidianità piena di senso, e dunque di tutto, a varie età.


Sono ritratte qui donne di tutti i mondi, forse a Milano, forse nella metropolitana o in treno o al supermercato, oppure viste in sogno, o spiate mentre si guardano velocemente allo specchio, sempre consapevoli di essere osservate e magari ritratte, però mai disposte a fingere di essere diverse da quello che sono, straordinariamente normali, uniche.


I colori a prima vista sembrano pieni, ma poi si rivelano ricchi di sfumature, come un cielo lontanissimo di nuvole colorate: non sono l'ultimo orizzonte ma il sipario socchiuso sull'universo.

L'arte dell'osservazione e del ritratto diventa così una cosmologia segreta.

Le opere sono visibili QUI


martedì 11 gennaio 2022

Quarta dimensione di Ghiannis Ritsos

 


Cinque figure di vecchie donne leggendarie raccontano la loro storia che ha radici nel mito. Ma le loro storie antichissime, sottratte al totale oblio mitologico, si snodano nei paesaggi urbani di oggi. Le splendide ville che sembrano aver accolto la loro esistenza sono in rovina, ma sui ruderi il poeta fa brillare ogni tanto il bagliore metropolitano di un’insegna con i colori dell’oggi. In spazi d’altri tempi fuma, metafora del presente, una sigaretta. I millenni sembrano divorati dal vortice degli accostamenti, quello che viene narrato è cronaca, presente, eppure antichissimo mito. I ricordi delle anziane protagoniste, sono commozione che afferra; tuffo nel più remoto passato che ha tessuto il presente. Questi versi fanno sentire nei piedi più salde le antiche radici. Le donne di Ritsos sono tutte prossime alla morte; ognuna racconta, ricorda. Ma ricordare, se è emozione che serra la gola, è anche acuta comprensione – distanza – e la morte diviene qui davvero “ideale terreno di coltura della vita”. In questi versi la fine delle vecchie signore del mito diviene davvero, come diceva Kerényi “conoscenza chiara della morte, deliberato servire la vita”. E queste mitiche figure femminili sembrano più umane che mai nella narrazione dei loro frammenti di vita fulgidi come gioielli, che se ricevono alcuni bagliori dalle luci affievolite del mito, estinguendo la distanza del tempo, ci vengono ora restituite in uno spazio – tempo interiore, slargato e nuovamente trasfuso di vita. Così l’eco del tempo ci investe restituendoci la memoria di autentiche antenate spirituali colme di saggezza, cariche di ricchi vissuti emotivi che forse proprio per la loro mancanza di eroismi diventano la quintessenza della femminilità. Ritsos ci svela miti e riti delle sue eroine attraverso i loro pensieri segreti. Nessuna ha compiuto niente di eroico, nessuna è stata neppure madre. Eppure dai loro racconti scaturiscono  fiumi di immagini vitali, e come le diverse variazioni di uno stesso tema musicale, ognuna parla d’amore e ci conduce ad una vera profonda immersione in noi stessi per, forse, dar volto ai nostri pensieri segreti, forse, cercare il suono dei nostri miti.

Marisa Bello

Crisotemi



"A quei tempi,

spesso, passeggiando da sola in giardino, capitava

che mi s'avvicinasse alle spalle senza far rumore la luna, e

d'improvviso

mi tappasse con le mani gli occhi domandando: 'Chi sono?'."



"Allora
 
mi avvicinai allo specchio e provai, per la prima volta, a tingermi
 
le labbra,

con quel rossetto misterioso e sacro di mia madre. Sulle mie

labbra

si stese un bel tramonto pieno di rimorsi - un triste bagliore
 
rosso."


Ismene

"I grandi orologi a muro sono fermi - nessuno li ricarica;

e se qualche volta sosto davanti ad essi, non è per guardare

l'ora,

ma per specchiare nel loro vetro il mio volto, 

stranamente bianco, di gesso, impassibile, come fuori dal tempo,

mentre nel loro fondo oscuro le lancette ferme,

proprio dietro la mia immagine, sono un bisturi immobile

che non ha più ferite da incidere, non ha più niente

da asportarmi - paura o speranza, attesa o ansia."




"Allora mandavano a chiamare il vecchio indovino cieco.
 
Un bambino dolce

lo teneva per mano. Maestoso, astutissimo, bello,

la barba lunga fino alle ginocchia, i grandi occhi vuoti

(pensavo che si fingesse cieco e che la barba fosse finta)

col suo bastone autoritario, - esalava calma, beatitudine,

pienezza;"


Fedra



"Non so più dove mettermi,

così assediata dalle mie ombre, più evidente che mai,

eretta, mi sembra, in mezzo al mondo, tradita, visibile ad ogni

dove."







"tengo in mano le forbici,

tento di ritagliare una tunica dalla stoffa, - dal rumore capisco

che taglio il pelo d'una mia ombra."

Elena



"Così reclusa, serrata, tesa - che stanchezza, mio dio, - 

serrata in ogni istante (perfino durante il sonno) come

in un'armatura gelida, o il corpo intero entro un busto di 

legno, come

in un mio cavallo di Troia, ingannevole, stretto, conoscendo

ormai

la vanità dell'inganno e dell'illusione, la vanità della fama,

la vanità e la precarietà della vittoria."




"In questa casa il vento s'è fatto pesante e inspiegabile, forse

per la presenza così naturale dei morti."


Persefone



"Te l'assicuro, -  stavo bene laggiù. Mi ci sono abituata. Qui non

resisto;

c'è troppa luce - mi fa ammalare - una luce denudante,

inaccessibile;

rivela ogni cosa e la nasconde;"




"Sentii allora il suo braccio avvolgermi la vita,

ruvido, peloso, muscoloso, domare la mia resistenza; - ma

quale resistenza? -

io non ero più io; - nessun timore, dunque, d'essere umiliata;

ogni cosa 

s'era immobilizzata nell'infinita trasparenza

d'un compiuto impossibile."


Ghiannis Ritsos, Quarta dimensione, Crocetti Editore, 1993 


venerdì 8 febbraio 2019

Lettera a Maria Izzo


Maria e Marisa - in tournée a Varsavia 1974

Carissima Maria
ti penso molto… i ricordi della nostra antica amicizia si affastellano e traboccano dalla mia mente, permeando tutto il vissuto del mio quotidiano. Ci siamo conosciute all’Accademia di Belle Arti di Napoli a scenografia e la nostra relazione si è approfondita e cementata nel 1968. Eravamo entusiaste e molto speranzose che quel movimento potesse farci contribuire a cambiare il mondo. Ricordo il gran da fare che ci demmo per organizzare nell’Accademia occupata il primo convegno nazionale di tutte le Accademie d’Italia. Eravamo fiere del nostro attivismo e di poter impiegare la nostra piccola forza in obiettivi che ci sembravano anche profondamente politici. Avevamo anche visioni del mondo in gran sintonia. Poi il ’68 passò e la cattedra di scenografia fu presa dal professor Mancini che ci fece fare una grossa mostra con elaborati del terzo e quarto anno insieme. Ricordo con quanta sapienza e forza tu modellavi con martello e metalli una grande figura bizantineggiante ed io costruivo un modellino di teatro giapponese con centinaia di personaggini minuscoli più un grande attore kabuki su strati sovrapposti di polistirolo. Lavoravamo ormai insieme ed eravamo contentissime; poi io ebbi da Peppe Barra l’occasione di disegnare dei costumi per un saggio di una scuola di danza, con la supervisione di Roberto De Simone. Naturalmente tutta la realizzazione la facemmo insieme con grande allegria. Alla fine quando ci pagarono, stemmo ore sul divano a dividerci i soldi ad uno ad uno, più e più volte, quasi incredule. Era il nostro primo lavoro pagato. Poi per un po’ ci perdemmo di vista. Io ero entrata nel Teatro Esse e partecipato alla fondazione di Libera Scena diretta da Gennaro Vitiello. Con le prove dell’Urfaust tu ti facesti rivedere e decidesti di entrare in questo ensemble. Mi aiutasti a fare il teatrino della cantina di Auerbach. Poi per anni abbiamo lavorato insieme dalla mattina alla sera nel laboratorio di Torre del Greco, tra scene, costumi e prove di recitazione. Indimenticabile! Quanta vita abbiamo condiviso.
Marisa Bello

Con Mario Martone - Teatro Studio Milano

Nascita del teatro di Renato Carpentieri

Nascita del teatro di Renato Carpentieri



lunedì 19 marzo 2018

Viaggio nelle terre degli antichi dei





L'irrazionale non deve e non può essere estirpato. Gli dèi non possono e non devono morire. Guai agli uomini che vogliono disinfettare razionalmente il cielo, scriveva Jung. Un messaggio che Marisa Bello ha recepito intimamente, raccogliendo in questa mostra un variegato arcipelago di suggestioni archetipiche ed antiche divinità. Nel fluire sincronico di diversi orizzonti culturali, ci scorrono davanti agli occhi Veneri preistoriche, divinità naturali, dee greche, creature marine. In questo orizzonte polimorfo, la figura della divinità appare assai complessa: nè evasione estatica verso l'alterità del sogno, nè preludio ad un atto di abbandono o sottomissione del Sè. Come in ogni viaggio, l'artista compie qui un doppio movimento, di estroflessione immaginifica, dove la psiche rivela tutta la fertilità del suo conato mitopoietico, e di introflessione in direzione della propria soggettività e opera creatrice.
La divinità mitica fa incursione in spazi urbani moderni, contenuta all'interno di architetture assurdamente razionaliste. La sua testa si posa su gru e ingranaggi mobili, sprofonda in androni di scale, si staglia tra rovine, si affianca a moduli edilizi resi caduche tessere di domino. Può sembrare vittima di una modernità secolarizzata, esanime, che la priva di luogo riducendola a maschera, ma essa non pare in realtà affatto sconfitta. Il suo sguardo trascende infatti l'incongruità squallida del contesto per rivolgerci un enigmatico appello. Nemmeno la divinità-albero, squarciata da un enorme viadotto, si lascia violare dalla cecità della modernità, e la trasforma a sua volta in vicolo cieco,  riavvolgendo l'abuso nel proprio sacro grembo.
Un viaggio che corre lungo la linea del femminile, carattere dominante dell'intero percorso, e che trova nell'elemento acquatico il suo perfetto correlato simbolico. L'artista sceglie infatti una narrazione matrilineare che libera la dea da un ruolo subalterno ed ancillare e la riporta alla significazione preistorica di incarnazione della totalità ciclica della natura nella sua capacità generatrice. Essa emerge dalle acque, a loro volta potente simbolo di un viaggio circolare fatto di nascita, trasformazione, morte in uno stadio e rinascita in uno differente, sorgente di vita e strumento di rigenerazione. Specialmente se nella forma di quell'alto mare aperto che il navigante attraversa, ricercando la propria direzione in equilibrio tra forze contrastanti, luce e tenebra, immaginazione e razionalità. Mare come barriera invalicabile che conduce allo smarrimento dell'Io, o come via verso un nuovo approdo e la rinascita del Sè.
Una duplicità polare che costituisce ogni figura archetipica e che attraversa l'intera mostra, restituendoci un divino ambiguo, lontano dalla beatitudine definitiva e portatore di un messaggio impenetrabile, in aperto dialogo con una soggettività artistica inesauribilmente dialettica. Al termine del viaggio, l'artista torna infatti a riflettersi nell'opera: un bimbo che scruta l'orizzonte dietro l'oblò uterino dell'IO; un riflesso fantasmatico evaso dallo specchio che, liberato dal legame con la propria immagine-madre, cammina angosciato sulla maschera del dio; e infine, a chiudere il ciclo, una figura elfica capace di afferrare e riorientare la propria cornice, portando con sè un'apertura che è soglia verso un altrove inesplorato. Una bellissima metafora della creazione artistica.

Clara Zanardi

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