olio su tela cm. 70x50 |
Un momento di esitazione. Questa è la prima sensazione che l'incontro con l'ultimo ciclo di opere di Marisa Bello suscita in noi. In un primo tempo lo sguardo si nutre goloso dell'intensità del colore, s'intrude nel ritmo deciso della composizione, esplora con curiosità le forme insolite, ma, stupito, si scopre incapace di scorrerne la superficie con spensierata leggerezza, di scivolarvi sopra semplicemente, distrattamente. A tinte forti, a tratti gioiose, e ad un tripudio inventivo d'immagini che potrebbe scaturire dalla matita imbizzarrita di un bimbo non corrisponde infatti alcuna ingenua letizia, alcun ostentato conforto da offrire alla nostra percezione esasperata dalla conformità delle immagini di consumo. Non si può evitare così di soffermarsi sulle linee spezzate, lungo le ferite aperte dai violenti contrasti cromatici, attorno alle scaglie mozzate di edifici e muri, di tetti e scale, attraverso fenditure cieche, dinnanzi a finestre buie.
Abituato ad
interrogare qualsiasi significante sul proprio significato, lo sguardo si
aggrappa ad ogni profilo familiare, ad ogni accostamento evocativo e cerca in
essi una didascalia del senso possibile, un'interpretazione narrativa. La
morale della favola. Ma fatica, stenta. Esita. Cerca allora almeno una
categoria, nella cui rassicurante cornice rimarginare il proprio smarrimento:
si tratta forse di arte astratta? Ma le tessere del mosaico sono frammenti
di realtà, i mari, i cieli, i prati, così concreti... si tratta quindi di
paesaggi? Eppure è così estremamente lontano da ciò che con questo termine
solitamente intendiamo...dunque, arte materica? Nessun tubetto
direttamente spremuto sulla tela, nessun legno bruciato, nessuna sabbia terra
argilla...no...simbolismo? Sarebbe allora da decifrare una trama di
analogie, da comprendere a quale essenza del reale esse rimandino...troppo
astruso, troppo forzato. Infine, si arrende; abbandona la ricerca mentale
di una chiarificazione ultima e lascia che per una volta sia l'opera a
s-quadrarlo, forte del suo enigmatico riflesso.
È a partire da
questa profonda e preziosa sensazione di spaesamento che si può tentare
di raccogliere qualcuno dei pensieri che, in ordine sparso, scaturiscono dalle
immagini create dall'artista, sapendosi in un terreno altro da quello della
razionalità logica e al contempo altro dall'irrazionalità puramente fantastica,
o delirante. Altro esattamente dall'opposizione dicotomica tra questi due
orizzonti. Serbando in sé la consapevolezza che occorre rinunciare alla pretesa
teorica dell'interpretazione, all'anelito naturale alla decodifica
dell'immagine o all'anamnesi dell'inconscio agente per porsi, con semplice
umiltà, in ascolto. Questo spaesamento dell'a-simbolico apre infatti uno spazio
vergine, finalmente libero dalla tirannia del significato, uno spazio di pura
libertà, che comunica, trasmette stimoli ed emozioni, suscita pensieri e
fantasie, suggerisce interrogativi, senza tuttavia pretender mai di dominare
cognitivamente, di spiegare, descrivere, rappresentare. È, in quanto tale, un
linguaggio puramente altro o, più radicalmente, un altro dal linguaggio che
cerca una sua forma propria attraverso l'arte.
Il luogo che
incornicia il gesto artistico di Marisa Bello è una finestra, attraverso cui
una fenditura di luce solare ritaglia triangoli brillanti. Un semplice
cavalletto, di legno chiaro, una vecchia poltrona. Lontano di quelli che paiono
secoli dagli eccessi del patinato universo dell'art business, la matita
insegue una traccia soltanto intravista e le setole del pennello si intingono
d'immaginazione, seguendo fluidità e percorsi propri, insondabili. Nella quiete
calma e lenta del mattino il silenzio è rotto solo da rumori di porte e
campanelli d'altre case, dalla pluralità di voci e lingue altre che si
snocciola più o meno marcatamente tra le pareti sottili d'un condominio
popolare. Una scelta consapevole, quella di abitare in profondità i luoghi
periferici, che appartiene da sempre alla vita dell'artista, volta a ricercare
anche nella quotidianità anonima e conforme dell'edilizia pubblica, tra i
lunghi ballatoi esterni delle case-ringhiera, forme di condivisione e contatto
umano. Oltre i vetri della finestra-cornice lo sguardo arranca, frustrato, sul
grigiore cementizio di uno spazio asimmetrico e uniforme, una colata bituminosa
che ricorda astrattamente un cortile interno su cui si affacciano in verticale
una moltitudine di finestre identiche. Viene spontaneo cercare verso l'alto il
rettangolo vivido del cielo, nella speranza non sia a sua volta offuscato dal
denso smog in cui la metropoli milanese traduce la sua tanto conclamata quanto
tossica produttività. Ci si domanda come sia possibile originare colori così
intensi, a tratti fiammanti, a partire da un contesto simile, visceralmente
neutro. Ci si risponde che forse basta quel singolo fascio di luce solare, nel
suo temporaneo e obliquo transito sulla tela, a forgiare nuovi spazi di realtà,
ad aprire uno spiraglio d'altrove.
Ben al di là del biografismo
ricercare le orgini del gesto pittorico di Marisa Bello, radicarlo nel luogo in
cui si svolge, aiuta a comprendere la trama di esperienze e suggestioni che ne
strutturano le forme e gli esiti, a mapparne l'itinerario. Uno spazio che si
trasforma senza sosta in un tempo accelerato all'inverosimile: è questo il
territorio che lei cerca ora, attraverso l'arte, di tornare ad abitare. Dopo
aver lottato a lungo con le proprie forze per conquistare e difendere nicchie
di resistenza nella realtà, prima a Napoli poi a Milano, all'artista non resta
che rielaborare interiormente, in maniera profonda e sofferta, il cambiamento
senza ritorno compiuto dall'uomo ed affidare infine alla tela il suo sguardo
alternativo, riservando all'immaginazione ciò che ha scelto di sottrarre ad una
parola ormai satura d'inerzie. Non con il fatalismo della rassegnazione nè con
l'ingenuità naif della speranza, ma con la naturalezza di un percorso che si
appropria di nuove forme o ne riscopre di antiche senza potersi mai sopire.
Se lo spaesamento è
una condizione costante del nostro vivere quotidiano, a partire dal rapporto
complesso e contrastivo che intratteniamo con lo spazio, in primis con quello
urbano, abbiamo tuttavia smarrito la potenzialità sovvertitrice e riposizionatoria
che esso in sé contiene, ovvero non siamo più in grado di farne attivamente
esperienza, arginando l'angoscia panica che lo accompagna e trasformandolo in
domanda radicale e profonda, che metta in discussione la società che lo produce
anche nella configurazione fisica che essa sceglie di darsi. Come fa notare
Paul Virilio, oggi esso è piuttosto il frutto di un movimento coatto che ci
induce senza tregua alla fuga, è il prodotto ultimo e annichilente di un
eccesso di velocità mediato dal progresso tecnologico cui pare non esserci,
nonostante le più svariate retoriche slow, alcuna opposizione
realistica. E così attraversiamo ogni giorno luoghi che l'eclissi della
progettazione territoriale ha ridotto ad agglomerati di gusci achitettonici
svuotati di senso, luoghi inospitali in cui l'iperconcentrazione delle masse ha
paradossalmente divelto la possibilità di incontrare l'altro, di creare
comunità, e viviamo in cubo-dormitori nelle periferie sempre più estese di
città cresciute a dismisura oltre e contro se stesse.
Il contraddittorio
rapporto con tale dimensione attraversa non solo la vita dell'artista, ma in
modo ancor più pregnante le opere raccolte in questa mostra. Più che scorci di
città, ad apparire nelle ultime tele sono ammassi di rovine, resti scomposti di
abitazioni, accenni di grattacieli, scalinate senza approdi, pareti monche.
L'uomo non compare, se non negli esoscheletri abitativi che si è lasciato alle
spalle. Eppure esso è traccia: la sua presenza, il suo passaggio, sono rivelati
proprio dalla sua assenza che lo chiama in causa nella responsabilità primaria di aver dato
forma alla terra secondo i suoi bisogni e di averlo fatto in modo cieco e
stolto, spinto dalla mera bramosia di profitto, fino ad esaurirne le risorse e
renderlo un luogo non più abitabile. L'hybris estrema, quella che non ha
sfidato un dio ma la natura stessa, viene qui compensata senza alcun afflato
tragico, senza drammi. L'apocalisse è giunta contro ogni previsione nel quieto
silenzio di un'immagine, lontano da squilli di tromba, da fiamme o demoni.
Un'era, quella della superpotenza tecnologica dell'uomo, è finita per aver
superato ogni misura, ogni limite, e con la semplice naturalezza
dell'inesorabile un altro ciclo è agli albori.
Non siamo quindi di
fronte a scenari di morte, a drammatiche intessiture di decadenza, ma alla
ripresa lenta della vita, al rifiorire delle vivide tinte della natura dopo la
desolazione di un lungo e grigio inverno. Qualche finestra, lassù, torna ad
illuminarsi. Una ripresa che appare a tratti insicura, fragile; che poggia su
basi instabili, in un perpetuo equilibrio precario, e tuttavia prosegue il suo
corso. L'elemento naturale e l'elemento artificiale si incontrano in queste
visioni con un'armonia finora insospettabile; si fondono in conglomerati calcarei,
in concrezioni rocciose, in colate laviche, ritrovando nella torsione comune,
nella compenetrazione, una sintonia dimenticata. Sorgono così strutture che non
appartengono più alla geometria euclidea, che non sono dotate di una forma
specifica né di una funzione identificabile, frutto della metamorfosi
qualitativa che, sperimentando liberamente effetti di congiunzione e
disgiunzione, collega serie di molteplicità disomogenee aggregandole attorno ad
un nucleo, dando loro un profilo conchiuso. Di contro all'estensione mostruosa
dei conglomerati urbani, infatti, i luoghi creati da Marisa Bello sono finiti,
delimitati, quasi protettivi come grembi materni. Non necessitano per questo di
obblighi, recinzioni o coercizioni: essi paiono contenere in se stessi la
propria misura, il criterio armonico del proprio sviluppo, quel senso della
proporzione che così intensamente apparteneva agli antichi e che noi da lungo
tempo abbiamo violato e, infine, dimenticato.
E forse proprio il
riaffiorare di un rapporto intimo tra il regno dell'organico e quello
dell'inorganico può essere posto come filo conduttore delle opere in mostra,
suggerito con estrema nitidezza e forza evocativa dalla forma finale delle
composizioni che richiama alla mente cristalli, conchiglie, nidi di vespa,
elementi posti esattamente al confine tra i due regni. Per l'associazione
intima che essi inducono con le immagini create dall'artista sembra opportuno
soffermarsi un momento sulla loro genesi per poi poter tornare alle opere con
una prospettiva più ampia che, al di là di qualsiasi schematismo simbolista,
sappia connettere fluidamente le varie dimensioni del reale che sulla
superficie pittorica si intrecciano senza sosta.
A partire dai
cristalli, la cui formazione avviene attraverso un passaggio di stato: una
materia inizialmente liquida o aeriforme evolve verso lo stato solido. Essi
sono, cioè, il frutto di un processo di riconquista di solidità da parte della
materia, di una riappriopriazione di forma da parte dell'informe, del disperso.
La crescita del cristallo è armonica, avviene per accrescimenti successivi
rispettando la morfologia del reticolo che ne costituisce il nucleo sorgente,
il germe. Dal punto di vista fisico, si tratta di una trasformazione che
implica una diminuzione di entropia e avviene mediante concentrazione, ovvero
mediante l'interazione intermolecolare che segue fasci di relazioni reticolari
assimilate da alcuni biologi alle reti neurali umane. E' questo uno dei
fenomeni chimici più affascinanti fra quelli esistenti proprio per il suo
intrinseco carattere liminale: esso crea un ponte fra il mondo microscopico,
popolato da molecole invisibili, e quello macroscopico degli oggetti che
riusciamo a vedere con i nostri occhi ed è un processo contemporaneamente
naturale ed artificiale, proprio sia del mondo inorganico che del mondo
organico. Attraversano infatti la cristallizzazione tanto le rocce, il magma,
la neve, stalattiti e stalagmiti, quanto il sale, il miele, lo zucchero, le
ossa umane, i calcoli renali. Non è perciò un caso sia anche il procedimento
posto alla base delle pratiche alchemiche. I cristalli sono infine
straordinariamente prossimi alla definizione di esseri viventi: nascono da un
germe di cristallizzazione, crescono, si alimentano sottraendo molecole dallo
stato liquido, si riproducono, hanno una sensibilità nei confronti degli
stimoli esterni, muoiono.
Chissà se e per
quali fasci di relazioni semantiche o sensoriali le configurazioni che Marisa
Bello dona alla sua materia in mutamento sono così prossime ai cristalli. Anche
esse, infatti, si pongono come forme di contenimento dell'entropia, del caos a
cui l'iperurbanismo e il dominio tecnico hanno condotto la specie umana. Sono
composizioni che si inseriscono in cunei di spazio, in concavità naturali, e si
strutturano gradualmente verso una forma, senza estendersi in maniera
mostruosa, senza divorare il terreno su cui sorgono. Talune fragili, in bilico
su un solo spigolo; altre più chiuse, quasi ermetiche nel proprio inaccessibile
guscio; tutte a proprio modo composte, delimitate, e in questo opposte alle
megalopoli d'oggi, i cui tentacoli periferici raggiungono e sventrano ogni
apertura di spazio. Di contro alla dispersione nichilista e alla conclamata
liquidità della civiltà postmoderna, l'artista ritrova qui una forma,
un'armonia tra l'ambiente e l'escrezione inorganica dell'organismo umano; una
possibile dimora che, sfumato definitivamente l'inquietante progetto
heideggeriano di radicamento al suolo, può tracciarsi ormai solo come piega che
disegna la mappa di un territorio mutante.[1]
L'altro elemento a questo strettamente connesso è la conchiglia, esito a sua volta di una fusione fra elementi organici, le proteine secrete dalle ghiandole del mollusco, ed inorganici, il carbonato ed il fosfato di calcio che la strutturano. Anch'essa elemento liminale, capace di accrescersi progressivamente mantenendo una propria intrinseca proporzione, e così facendo di ospitare la vita nel suo lento sviluppo. Una crescita che appare sempre ed esclusivamente connessa ai bisogni effettivi del vivente, mai eccessiva, mai sclerottizzata o metastatica; dotata di una propria misura. Introiettata dall'inconscio collettivo come elemento positivo, simbolo di fertilità, prosperità, vita, essa è associata, proprio come il cristallo, ad un percorso di purificazione, ad una purezza essenziale della materia, al punto da essere ritualmente portata in pellegrinaggio in tempi antichi come offerta al divino.
Forse è in questa
esigenza di un abbandono definitivo del "troppo" indotto dal
capitalismo, dell'eccesso oltre ogni limite, del ritorno ad un'ospitalità
autentica, tanto del luogo quanto dell'umano, a costituire nelle visioni di
Marisa Bello il tramite di passaggio tra il cristallo e la conchiglia. Nonchè a
rendere quest'ultima protagonista di un massiccio ritorno nell'architettura
contemporanea per il suo carattere di
mediazione armonica e delicata tra l'interno e l'esterno, tra la costruzione ed
il paesaggio; per il suo intimo legame con la natura e con l'elemento acqueo,
fonte di vita, oggi spezzato dalle pratiche di costruzione urbana. Un legame
che ha lasciato in noi una nostalgia profonda che riemerge ogni qual volta
portiamo una conchiglia all'orecchio per ritrovare al suo interno il rumore del
mare, facendone poetica quanto amara icona di un'impossibile evasione dall'artificiosa quotidianità della città.
Senza facili derive
consolatorie, l'impressione che le opere di Marisa trasmettono è in fondo
positiva proprio perché ad essere recuperata è una forma di reintegrazione e di
armonia tra gli elementi, anche (o soprattutto?) in assenza dell'uomo, grazie
ad un processo lento, fatto di calcificazioni e agglomeramenti successivi
radicalmente imprevedibili, incalcolabili perché legati a modelli di sviluppo
organico anzichè a progettazioni razionali. Un processo che avviene in un tempo
che appare rarefatto, impermeabile al culto della velocità; non diacronico, ma
sincronico, quasi sospeso. In queste indissolubili concrezioni di materia e
tempo esso ricompare infatti più che altro come tessitura sotterranea, come
testimonianza di un passaggio di civiltà, senza scorrere o essere vissuto quale
effettiva esperienza: ogni epoca ha lasciato su queste concrezioni una traccia
ed ha contribuito a plasmarne la forma senza potervi però imprimere il suo
marchio. Non siamo perciò di fronte all'apocalisse postumana, ad un viaggio al
termine della notte, quanto piuttosto alla rigenerazione di un possibile
mediata dalla forza dell'immaginazione artistica.
Attraversando le
opere di Marisa Bello accade così di viversi per un istante in uno spazio
altro, liberato dalla normatività istituzionale e disciplinatoria, uno spazio
di respiro. Un luogo equamente estraneo tanto all'informità caotica della
metropoli quanto all'illusorietà di una campagna ridotta a mera occasione di
svago bucolico o a meta turistica; un "paesaggio dell'anima" in cui
poter oltrepassare la frattura tra mondo esterno e mondo interno, in cui
riscoprire per un istante un'armonia che non sia consolatoria né priva di basi
reali, ma in sé consistente e, come un cristallo, concreta.[2]
Proprio per questo
non possiamo classificarla come l'ennesima utopia, intesa come spazio
fondamentalmente ed essenzialmente irreale, che intesse una relazione di
semplice analogia con lo spazio reale, effettivo, della società. La tela è
invece qui uno spazio dotato di esistenza propria, la cui apertura di senso,
lungi dal costituirsi quale ricerca di una verità metafisica oltre le cose o di
una qualche suprema essenza, accade interamente in superficie. Sebbene sia
localizzabile, abbia una propria effettiva estensione, la tela e ciò che su
essa affiora si trovano al contempo al di fuori di ogni luogo, configurandosi
come ciò che Foucault definisce eterotopie: contro-luoghi in cui tutti
gli altri luoghi reali vengono contemporaneamente rappresentati, contestati e
sovvertiti.[3] L'eterotopia ha infatti il
potere di giustapporre, in un unico luogo reale, diversi luoghi tra loro
incompatibili, come possono esserlo in questo caso edifici urbani, ambienti
marini, case, cime vulcaniche, lastroni di roccia; operando in perfetta
simmetria con forme di eterocronia, in cui resti fossili si associano ad
abitazioni di foggia moderna in un presente senza tempo, sospeso, in cui
quest'ultimo, sottratto all'accelerazione, può riemergere solo come storia
dell'umanità che risale alla propria sorgente.
Tele eterotope
quindi, ovvero "spazi che sono connessi a tutti gli altri spazi, ma in
modo tale da sospendere, neutralizzare, invertire l'insieme dei rapporti che
essi stessi designano, riflettono o rispecchiano".[4]
Come tali, gli scorci che Marisa Bello offre al nostro sguardo esercitano una
vera e propria azione specchiante, dando origine ad un determinato effetto di
ritorno. Infatti, così come è a partire dallo specchio che mi scopro assente
nel luogo in cui sono, dal momento che è là, riflesso nel vetro, che mi vedo;
allo stesso modo dagli spazi aperti nelle tele vengo rimandato ai miei spazi
reali, sociali, ovvero ricomincio a portare lo sguardo verso di me per
ricostituirmi là dove sono, con un movimento che è l'esatto opposto
dell'evasione consolatoria che caratterizza l'utopia.
"Le utopie
consolano; se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio
meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati,
paesi facili anche se il loro accesso è chimerico. Le eterotopie inquietano,
senz'altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare
questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché
devastano anzi tempo la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le
frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme»…le parole e le cose. È
per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: si collocano nel
rettifilo del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le
eterotopie inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse,
contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i
miti e rendono sterile il lirismo delle frasi".[5]
Non si tratta perciò
di visioni astratte, meri divertissement immaginativi o fughe idilliche,
ma di luoghi concreti, la cui illusorietà svolge l'insostituibile funzione di
indicare come ancor più illusorio, come realmente illusorio, ogni spazio
considerato reale, ovvero tutti quei luoghi al cui interno la vita umana è oggi
relegata e costretta.
Diversamente
dall'utopia, nella cui prossimità ad una ingegneria sociale completa è insito
un rischio di totalitarismo, l'eterotopia abbandona l'idea di un progetto di
ordine complessivo per porsi come pratica umana effettiva, di piccola scala. Ad
una pianificazione totale subentra così infine l'apertura di varchi di
sperimentazione alternativa, con una funzione simile a quella che un tempo
apparteneva al carnevale. Di fronte alla consapevolezza che nell'epoca contemporanea
poche altre forme realmente alternative sono rimaste percorribili, salve dal
pervasivo rischio di essere immediatamente riassorbite dal sistema nel format
angusto della contestazione, l'arte torna a dischiudere per Marisa Bello la
possibilità concreta di una sperimentazione libera e di una sospensione
dell'apparente immutabilità dell'ordine delle cose, macigno che destina il
cittadino globale all'indifferenza. E per noi, attraverso lo specchio della sua
immaginazione, prende corpo la possibilità di ritornare alla nostra realtà
vivendone più consapevolmente sproporzioni e assurdità e cercando di
riconquistare un rapporto armonico con l'elemento naturale anziché
accontentarci di porgere l'orecchio alle onde oniriche portate a riva da una
conchiglia.
Con profonda stima e sincero affetto,
Clara Zanardi