mercoledì 2 marzo 2016

Clara Zanardi: Materia in mutamento

olio su tela cm. 70x50


Un momento di esitazione. Questa è la prima sensazione che l'incontro con l'ultimo ciclo di opere di Marisa Bello suscita in noi. In un primo tempo lo sguardo si nutre goloso dell'intensità del colore, s'intrude nel ritmo deciso della composizione, esplora con curiosità le forme insolite, ma, stupito, si scopre incapace di scorrerne la superficie con spensierata leggerezza, di scivolarvi sopra semplicemente, distrattamente. A tinte forti, a tratti gioiose, e ad un tripudio inventivo d'immagini che potrebbe scaturire dalla matita imbizzarrita di un bimbo non corrisponde infatti alcuna ingenua letizia, alcun ostentato conforto da offrire alla nostra percezione esasperata dalla conformità delle immagini di consumo. Non si può evitare così di soffermarsi sulle linee spezzate, lungo le ferite aperte dai violenti contrasti cromatici, attorno alle scaglie mozzate di edifici e muri, di tetti e scale, attraverso fenditure cieche, dinnanzi a finestre buie.

Abituato ad interrogare qualsiasi significante sul proprio significato, lo sguardo si aggrappa ad ogni profilo familiare, ad ogni accostamento evocativo e cerca in essi una didascalia del senso possibile, un'interpretazione narrativa. La morale della favola. Ma fatica, stenta. Esita. Cerca allora almeno una categoria, nella cui rassicurante cornice rimarginare il proprio smarrimento: si tratta forse di arte astratta? Ma le tessere del mosaico sono frammenti di realtà, i mari, i cieli, i prati, così concreti... si tratta quindi di paesaggi? Eppure è così estremamente lontano da ciò che con questo termine solitamente intendiamo...dunque, arte materica? Nessun tubetto direttamente spremuto sulla tela, nessun legno bruciato, nessuna sabbia terra argilla...no...simbolismo? Sarebbe allora da decifrare una trama di analogie, da comprendere a quale essenza del reale esse rimandino...troppo astruso, troppo forzato. Infine, si arrende; abbandona la ricerca mentale di una chiarificazione ultima e lascia che per una volta sia l'opera a s-quadrarlo, forte del suo enigmatico riflesso.

È a partire da questa profonda e preziosa sensazione di spaesamento che si può tentare di raccogliere qualcuno dei pensieri che, in ordine sparso, scaturiscono dalle immagini create dall'artista, sapendosi in un terreno altro da quello della razionalità logica e al contempo altro dall'irrazionalità puramente fantastica, o delirante. Altro esattamente dall'opposizione dicotomica tra questi due orizzonti. Serbando in sé la consapevolezza che occorre rinunciare alla pretesa teorica dell'interpretazione, all'anelito naturale alla decodifica dell'immagine o all'anamnesi dell'inconscio agente per porsi, con semplice umiltà, in ascolto. Questo spaesamento dell'a-simbolico apre infatti uno spazio vergine, finalmente libero dalla tirannia del significato, uno spazio di pura libertà, che comunica, trasmette stimoli ed emozioni, suscita pensieri e fantasie, suggerisce interrogativi, senza tuttavia pretender mai di dominare cognitivamente, di spiegare, descrivere, rappresentare. È, in quanto tale, un linguaggio puramente altro o, più radicalmente, un altro dal linguaggio che cerca una sua forma propria attraverso l'arte.

Il luogo che incornicia il gesto artistico di Marisa Bello è una finestra, attraverso cui una fenditura di luce solare ritaglia triangoli brillanti. Un semplice cavalletto, di legno chiaro, una vecchia poltrona. Lontano di quelli che paiono secoli dagli eccessi del patinato universo dell'art business, la matita insegue una traccia soltanto intravista e le setole del pennello si intingono d'immaginazione, seguendo fluidità e percorsi propri, insondabili. Nella quiete calma e lenta del mattino il silenzio è rotto solo da rumori di porte e campanelli d'altre case, dalla pluralità di voci e lingue altre che si snocciola più o meno marcatamente tra le pareti sottili d'un condominio popolare. Una scelta consapevole, quella di abitare in profondità i luoghi periferici, che appartiene da sempre alla vita dell'artista, volta a ricercare anche nella quotidianità anonima e conforme dell'edilizia pubblica, tra i lunghi ballatoi esterni delle case-ringhiera, forme di condivisione e contatto umano. Oltre i vetri della finestra-cornice lo sguardo arranca, frustrato, sul grigiore cementizio di uno spazio asimmetrico e uniforme, una colata bituminosa che ricorda astrattamente un cortile interno su cui si affacciano in verticale una moltitudine di finestre identiche. Viene spontaneo cercare verso l'alto il rettangolo vivido del cielo, nella speranza non sia a sua volta offuscato dal denso smog in cui la metropoli milanese traduce la sua tanto conclamata quanto tossica produttività. Ci si domanda come sia possibile originare colori così intensi, a tratti fiammanti, a partire da un contesto simile, visceralmente neutro. Ci si risponde che forse basta quel singolo fascio di luce solare, nel suo temporaneo e obliquo transito sulla tela, a forgiare nuovi spazi di realtà, ad aprire uno spiraglio d'altrove.  

Ben al di là del biografismo ricercare le orgini del gesto pittorico di Marisa Bello, radicarlo nel luogo in cui si svolge, aiuta a comprendere la trama di esperienze e suggestioni che ne strutturano le forme e gli esiti, a mapparne l'itinerario. Uno spazio che si trasforma senza sosta in un tempo accelerato all'inverosimile: è questo il territorio che lei cerca ora, attraverso l'arte, di tornare ad abitare. Dopo aver lottato a lungo con le proprie forze per conquistare e difendere nicchie di resistenza nella realtà, prima a Napoli poi a Milano, all'artista non resta che rielaborare interiormente, in maniera profonda e sofferta, il cambiamento senza ritorno compiuto dall'uomo ed affidare infine alla tela il suo sguardo alternativo, riservando all'immaginazione ciò che ha scelto di sottrarre ad una parola ormai satura d'inerzie. Non con il fatalismo della rassegnazione nè con l'ingenuità naif della speranza, ma con la naturalezza di un percorso che si appropria di nuove forme o ne riscopre di antiche senza potersi mai sopire.

Se lo spaesamento è una condizione costante del nostro vivere quotidiano, a partire dal rapporto complesso e contrastivo che intratteniamo con lo spazio, in primis con quello urbano, abbiamo tuttavia smarrito la potenzialità sovvertitrice e riposizionatoria che esso in sé contiene, ovvero non siamo più in grado di farne attivamente esperienza, arginando l'angoscia panica che lo accompagna e trasformandolo in domanda radicale e profonda, che metta in discussione la società che lo produce anche nella configurazione fisica che essa sceglie di darsi. Come fa notare Paul Virilio, oggi esso è piuttosto il frutto di un movimento coatto che ci induce senza tregua alla fuga, è il prodotto ultimo e annichilente di un eccesso di velocità mediato dal progresso tecnologico cui pare non esserci, nonostante le più svariate retoriche slow, alcuna opposizione realistica. E così attraversiamo ogni giorno luoghi che l'eclissi della progettazione territoriale ha ridotto ad agglomerati di gusci achitettonici svuotati di senso, luoghi inospitali in cui l'iperconcentrazione delle masse ha paradossalmente divelto la possibilità di incontrare l'altro, di creare comunità, e viviamo in cubo-dormitori nelle periferie sempre più estese di città cresciute a dismisura oltre e contro se stesse.

Il contraddittorio rapporto con tale dimensione attraversa non solo la vita dell'artista, ma in modo ancor più pregnante le opere raccolte in questa mostra. Più che scorci di città, ad apparire nelle ultime tele sono ammassi di rovine, resti scomposti di abitazioni, accenni di grattacieli, scalinate senza approdi, pareti monche. L'uomo non compare, se non negli esoscheletri abitativi che si è lasciato alle spalle. Eppure esso è traccia: la sua presenza, il suo passaggio, sono rivelati proprio dalla sua assenza che lo chiama in causa  nella responsabilità primaria di aver dato forma alla terra secondo i suoi bisogni e di averlo fatto in modo cieco e stolto, spinto dalla mera bramosia di profitto, fino ad esaurirne le risorse e renderlo un luogo non più abitabile. L'hybris estrema, quella che non ha sfidato un dio ma la natura stessa, viene qui compensata senza alcun afflato tragico, senza drammi. L'apocalisse è giunta contro ogni previsione nel quieto silenzio di un'immagine, lontano da squilli di tromba, da fiamme o demoni. Un'era, quella della superpotenza tecnologica dell'uomo, è finita per aver superato ogni misura, ogni limite, e con la semplice naturalezza dell'inesorabile un altro ciclo è agli albori.

Non siamo quindi di fronte a scenari di morte, a drammatiche intessiture di decadenza, ma alla ripresa lenta della vita, al rifiorire delle vivide tinte della natura dopo la desolazione di un lungo e grigio inverno. Qualche finestra, lassù, torna ad illuminarsi. Una ripresa che appare a tratti insicura, fragile; che poggia su basi instabili, in un perpetuo equilibrio precario, e tuttavia prosegue il suo corso. L'elemento naturale e l'elemento artificiale si incontrano in queste visioni con un'armonia finora insospettabile; si fondono in conglomerati calcarei, in concrezioni rocciose, in colate laviche, ritrovando nella torsione comune, nella compenetrazione, una sintonia dimenticata. Sorgono così strutture che non appartengono più alla geometria euclidea, che non sono dotate di una forma specifica né di una funzione identificabile, frutto della metamorfosi qualitativa che, sperimentando liberamente effetti di congiunzione e disgiunzione, collega serie di molteplicità disomogenee aggregandole attorno ad un nucleo, dando loro un profilo conchiuso. Di contro all'estensione mostruosa dei conglomerati urbani, infatti, i luoghi creati da Marisa Bello sono finiti, delimitati, quasi protettivi come grembi materni. Non necessitano per questo di obblighi, recinzioni o coercizioni: essi paiono contenere in se stessi la propria misura, il criterio armonico del proprio sviluppo, quel senso della proporzione che così intensamente apparteneva agli antichi e che noi da lungo tempo abbiamo violato e, infine, dimenticato.

E forse proprio il riaffiorare di un rapporto intimo tra il regno dell'organico e quello dell'inorganico può essere posto come filo conduttore delle opere in mostra, suggerito con estrema nitidezza e forza evocativa dalla forma finale delle composizioni che richiama alla mente cristalli, conchiglie, nidi di vespa, elementi posti esattamente al confine tra i due regni. Per l'associazione intima che essi inducono con le immagini create dall'artista sembra opportuno soffermarsi un momento sulla loro genesi per poi poter tornare alle opere con una prospettiva più ampia che, al di là di qualsiasi schematismo simbolista, sappia connettere fluidamente le varie dimensioni del reale che sulla superficie pittorica si intrecciano senza sosta.

A partire dai cristalli, la cui formazione avviene attraverso un passaggio di stato: una materia inizialmente liquida o aeriforme evolve verso lo stato solido. Essi sono, cioè, il frutto di un processo di riconquista di solidità da parte della materia, di una riappriopriazione di forma da parte dell'informe, del disperso. La crescita del cristallo è armonica, avviene per accrescimenti successivi rispettando la morfologia del reticolo che ne costituisce il nucleo sorgente, il germe. Dal punto di vista fisico, si tratta di una trasformazione che implica una diminuzione di entropia e avviene mediante concentrazione, ovvero mediante l'interazione intermolecolare che segue fasci di relazioni reticolari assimilate da alcuni biologi alle reti neurali umane. E' questo uno dei fenomeni chimici più affascinanti fra quelli esistenti proprio per il suo intrinseco carattere liminale: esso crea un ponte fra il mondo microscopico, popolato da molecole invisibili, e quello macroscopico degli oggetti che riusciamo a vedere con i nostri occhi ed è un processo contemporaneamente naturale ed artificiale, proprio sia del mondo inorganico che del mondo organico. Attraversano infatti la cristallizzazione tanto le rocce, il magma, la neve, stalattiti e stalagmiti, quanto il sale, il miele, lo zucchero, le ossa umane, i calcoli renali. Non è perciò un caso sia anche il procedimento posto alla base delle pratiche alchemiche. I cristalli sono infine straordinariamente prossimi alla definizione di esseri viventi: nascono da un germe di cristallizzazione, crescono, si alimentano sottraendo molecole dallo stato liquido, si riproducono, hanno una sensibilità nei confronti degli stimoli esterni, muoiono.

Chissà se e per quali fasci di relazioni semantiche o sensoriali le configurazioni che Marisa Bello dona alla sua materia in mutamento sono così prossime ai cristalli. Anche esse, infatti, si pongono come forme di contenimento dell'entropia, del caos a cui l'iperurbanismo e il dominio tecnico hanno condotto la specie umana. Sono composizioni che si inseriscono in cunei di spazio, in concavità naturali, e si strutturano gradualmente verso una forma, senza estendersi in maniera mostruosa, senza divorare il terreno su cui sorgono. Talune fragili, in bilico su un solo spigolo; altre più chiuse, quasi ermetiche nel proprio inaccessibile guscio; tutte a proprio modo composte, delimitate, e in questo opposte alle megalopoli d'oggi, i cui tentacoli periferici raggiungono e sventrano ogni apertura di spazio. Di contro alla dispersione nichilista e alla conclamata liquidità della civiltà postmoderna, l'artista ritrova qui una forma, un'armonia tra l'ambiente e l'escrezione inorganica dell'organismo umano; una possibile dimora che, sfumato definitivamente l'inquietante progetto heideggeriano di radicamento al suolo, può tracciarsi ormai solo come piega che disegna la mappa di un territorio mutante.[1]




L'altro elemento a questo strettamente connesso è la conchiglia, esito a sua volta di una fusione fra elementi organici, le proteine secrete dalle ghiandole del mollusco, ed inorganici, il carbonato ed il fosfato di calcio che la strutturano. Anch'essa elemento liminale, capace di accrescersi progressivamente mantenendo una propria intrinseca proporzione, e così facendo di ospitare la vita nel suo lento sviluppo. Una crescita che appare sempre ed esclusivamente connessa ai bisogni effettivi del vivente, mai eccessiva, mai sclerottizzata o metastatica; dotata di una propria misura. Introiettata dall'inconscio collettivo come elemento positivo, simbolo di fertilità, prosperità, vita, essa è associata, proprio come il cristallo, ad un percorso di purificazione, ad una purezza essenziale della materia, al punto da essere ritualmente portata in pellegrinaggio in tempi antichi come offerta al divino.

Forse è in questa esigenza di un abbandono definitivo del "troppo" indotto dal capitalismo, dell'eccesso oltre ogni limite, del ritorno ad un'ospitalità autentica, tanto del luogo quanto dell'umano, a costituire nelle visioni di Marisa Bello il tramite di passaggio tra il cristallo e la conchiglia. Nonchè a rendere quest'ultima protagonista di un massiccio ritorno nell'architettura contemporanea  per il suo carattere di mediazione armonica e delicata tra l'interno e l'esterno, tra la costruzione ed il paesaggio; per il suo intimo legame con la natura e con l'elemento acqueo, fonte di vita, oggi spezzato dalle pratiche di costruzione urbana. Un legame che ha lasciato in noi una nostalgia profonda che riemerge ogni qual volta portiamo una conchiglia all'orecchio per ritrovare al suo interno il rumore del mare, facendone poetica quanto amara icona di un'impossibile evasione  dall'artificiosa quotidianità della città.



Senza facili derive consolatorie, l'impressione che le opere di Marisa trasmettono è in fondo positiva proprio perché ad essere recuperata è una forma di reintegrazione e di armonia tra gli elementi, anche (o soprattutto?) in assenza dell'uomo, grazie ad un processo lento, fatto di calcificazioni e agglomeramenti successivi radicalmente imprevedibili, incalcolabili perché legati a modelli di sviluppo organico anzichè a progettazioni razionali. Un processo che avviene in un tempo che appare rarefatto, impermeabile al culto della velocità; non diacronico, ma sincronico, quasi sospeso. In queste indissolubili concrezioni di materia e tempo esso ricompare infatti più che altro come tessitura sotterranea, come testimonianza di un passaggio di civiltà, senza scorrere o essere vissuto quale effettiva esperienza: ogni epoca ha lasciato su queste concrezioni una traccia ed ha contribuito a plasmarne la forma senza potervi però imprimere il suo marchio. Non siamo perciò di fronte all'apocalisse postumana, ad un viaggio al termine della notte, quanto piuttosto alla rigenerazione di un possibile mediata dalla forza dell'immaginazione artistica.

Attraversando le opere di Marisa Bello accade così di viversi per un istante in uno spazio altro, liberato dalla normatività istituzionale e disciplinatoria, uno spazio di respiro. Un luogo equamente estraneo tanto all'informità caotica della metropoli quanto all'illusorietà di una campagna ridotta a mera occasione di svago bucolico o a meta turistica; un "paesaggio dell'anima" in cui poter oltrepassare la frattura tra mondo esterno e mondo interno, in cui riscoprire per un istante un'armonia che non sia consolatoria né priva di basi reali, ma in sé consistente e, come un cristallo, concreta.[2]

Proprio per questo non possiamo classificarla come l'ennesima utopia, intesa come spazio fondamentalmente ed essenzialmente irreale, che intesse una relazione di semplice analogia con lo spazio reale, effettivo, della società. La tela è invece qui uno spazio dotato di esistenza propria, la cui apertura di senso, lungi dal costituirsi quale ricerca di una verità metafisica oltre le cose o di una qualche suprema essenza, accade interamente in superficie. Sebbene sia localizzabile, abbia una propria effettiva estensione, la tela e ciò che su essa affiora si trovano al contempo al di fuori di ogni luogo, configurandosi come ciò che Foucault definisce eterotopie: contro-luoghi in cui tutti gli altri luoghi reali vengono contemporaneamente rappresentati, contestati e sovvertiti.[3] L'eterotopia ha infatti il potere di giustapporre, in un unico luogo reale, diversi luoghi tra loro incompatibili, come possono esserlo in questo caso edifici urbani, ambienti marini, case, cime vulcaniche, lastroni di roccia; operando in perfetta simmetria con forme di eterocronia, in cui resti fossili si associano ad abitazioni di foggia moderna in un presente senza tempo, sospeso, in cui quest'ultimo, sottratto all'accelerazione, può riemergere solo come storia dell'umanità che risale alla propria sorgente.

Tele eterotope quindi, ovvero "spazi che sono connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare, invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano".[4] Come tali, gli scorci che Marisa Bello offre al nostro sguardo esercitano una vera e propria azione specchiante, dando origine ad un determinato effetto di ritorno. Infatti, così come è a partire dallo specchio che mi scopro assente nel luogo in cui sono, dal momento che è là, riflesso nel vetro, che mi vedo; allo stesso modo dagli spazi aperti nelle tele vengo rimandato ai miei spazi reali, sociali, ovvero ricomincio a portare lo sguardo verso di me per ricostituirmi là dove sono, con un movimento che è l'esatto opposto dell'evasione consolatoria che caratterizza l'utopia.

"Le utopie consolano; se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili anche se il loro accesso è chimerico. Le eterotopie inquietano, senz'altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme»…le parole e le cose. È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: si collocano nel rettifilo del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le eterotopie inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi".[5]

Non si tratta perciò di visioni astratte, meri divertissement immaginativi o fughe idilliche, ma di luoghi concreti, la cui illusorietà svolge l'insostituibile funzione di indicare come ancor più illusorio, come realmente illusorio, ogni spazio considerato reale, ovvero tutti quei luoghi al cui interno la vita umana è oggi relegata e costretta.

Diversamente dall'utopia, nella cui prossimità ad una ingegneria sociale completa è insito un rischio di totalitarismo, l'eterotopia abbandona l'idea di un progetto di ordine complessivo per porsi come pratica umana effettiva, di piccola scala. Ad una pianificazione totale subentra così infine l'apertura di varchi di sperimentazione alternativa, con una funzione simile a quella che un tempo apparteneva al carnevale. Di fronte alla consapevolezza che nell'epoca contemporanea poche altre forme realmente alternative sono rimaste percorribili, salve dal pervasivo rischio di essere immediatamente riassorbite dal sistema nel format angusto della contestazione, l'arte torna a dischiudere per Marisa Bello la possibilità concreta di una sperimentazione libera e di una sospensione dell'apparente immutabilità dell'ordine delle cose, macigno che destina il cittadino globale all'indifferenza. E per noi, attraverso lo specchio della sua immaginazione, prende corpo la possibilità di ritornare alla nostra realtà vivendone più consapevolmente sproporzioni e assurdità e cercando di riconquistare un rapporto armonico con l'elemento naturale anziché accontentarci di porgere l'orecchio alle onde oniriche portate a riva da una conchiglia.


                                                                    
Con profonda stima e sincero affetto,       
Clara Zanardi        




[1]Piega in questa accezione è un concetto introdotto ed elaborato da Gilles Deleuze e Felix Guattari
[2]"Paesaggi dell'anima" è espressione che dà il titolo ad un'opera di Umberto Galimberti.
[3]M. FOUCAULT, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis 2001
[4]Ivi
[5]M. FOUCAULT, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane, 1966



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