lunedì 19 marzo 2018

Viaggio nelle terre degli antichi dei





L'irrazionale non deve e non può essere estirpato. Gli dèi non possono e non devono morire. Guai agli uomini che vogliono disinfettare razionalmente il cielo, scriveva Jung. Un messaggio che Marisa Bello ha recepito intimamente, raccogliendo in questa mostra un variegato arcipelago di suggestioni archetipiche ed antiche divinità. Nel fluire sincronico di diversi orizzonti culturali, ci scorrono davanti agli occhi Veneri preistoriche, divinità naturali, dee greche, creature marine. In questo orizzonte polimorfo, la figura della divinità appare assai complessa: nè evasione estatica verso l'alterità del sogno, nè preludio ad un atto di abbandono o sottomissione del Sè. Come in ogni viaggio, l'artista compie qui un doppio movimento, di estroflessione immaginifica, dove la psiche rivela tutta la fertilità del suo conato mitopoietico, e di introflessione in direzione della propria soggettività e opera creatrice.
La divinità mitica fa incursione in spazi urbani moderni, contenuta all'interno di architetture assurdamente razionaliste. La sua testa si posa su gru e ingranaggi mobili, sprofonda in androni di scale, si staglia tra rovine, si affianca a moduli edilizi resi caduche tessere di domino. Può sembrare vittima di una modernità secolarizzata, esanime, che la priva di luogo riducendola a maschera, ma essa non pare in realtà affatto sconfitta. Il suo sguardo trascende infatti l'incongruità squallida del contesto per rivolgerci un enigmatico appello. Nemmeno la divinità-albero, squarciata da un enorme viadotto, si lascia violare dalla cecità della modernità, e la trasforma a sua volta in vicolo cieco,  riavvolgendo l'abuso nel proprio sacro grembo.
Un viaggio che corre lungo la linea del femminile, carattere dominante dell'intero percorso, e che trova nell'elemento acquatico il suo perfetto correlato simbolico. L'artista sceglie infatti una narrazione matrilineare che libera la dea da un ruolo subalterno ed ancillare e la riporta alla significazione preistorica di incarnazione della totalità ciclica della natura nella sua capacità generatrice. Essa emerge dalle acque, a loro volta potente simbolo di un viaggio circolare fatto di nascita, trasformazione, morte in uno stadio e rinascita in uno differente, sorgente di vita e strumento di rigenerazione. Specialmente se nella forma di quell'alto mare aperto che il navigante attraversa, ricercando la propria direzione in equilibrio tra forze contrastanti, luce e tenebra, immaginazione e razionalità. Mare come barriera invalicabile che conduce allo smarrimento dell'Io, o come via verso un nuovo approdo e la rinascita del Sè.
Una duplicità polare che costituisce ogni figura archetipica e che attraversa l'intera mostra, restituendoci un divino ambiguo, lontano dalla beatitudine definitiva e portatore di un messaggio impenetrabile, in aperto dialogo con una soggettività artistica inesauribilmente dialettica. Al termine del viaggio, l'artista torna infatti a riflettersi nell'opera: un bimbo che scruta l'orizzonte dietro l'oblò uterino dell'IO; un riflesso fantasmatico evaso dallo specchio che, liberato dal legame con la propria immagine-madre, cammina angosciato sulla maschera del dio; e infine, a chiudere il ciclo, una figura elfica capace di afferrare e riorientare la propria cornice, portando con sè un'apertura che è soglia verso un altrove inesplorato. Una bellissima metafora della creazione artistica.

Clara Zanardi

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