L'irrazionale non
deve e non può essere estirpato. Gli dèi non possono e non devono morire. Guai
agli uomini che vogliono disinfettare razionalmente il cielo, scriveva Jung. Un messaggio che Marisa Bello ha recepito intimamente,
raccogliendo in questa mostra un variegato arcipelago di suggestioni
archetipiche ed antiche divinità. Nel fluire sincronico di diversi orizzonti
culturali, ci scorrono davanti agli occhi Veneri preistoriche, divinità
naturali, dee greche, creature marine. In questo orizzonte polimorfo, la figura
della divinità appare assai complessa: nè evasione estatica verso l'alterità
del sogno, nè preludio ad un atto di abbandono o sottomissione del Sè. Come in
ogni viaggio, l'artista compie qui un doppio movimento, di estroflessione
immaginifica, dove la psiche rivela tutta la fertilità del suo conato
mitopoietico, e di introflessione in direzione della propria soggettività e
opera creatrice.
La divinità mitica
fa incursione in spazi urbani moderni, contenuta all'interno di architetture
assurdamente razionaliste. La sua testa si posa su gru e ingranaggi mobili,
sprofonda in androni di scale, si staglia tra rovine, si affianca a moduli
edilizi resi caduche tessere di domino. Può sembrare vittima di una modernità
secolarizzata, esanime, che la priva di luogo riducendola a maschera, ma essa
non pare in realtà affatto sconfitta. Il suo sguardo trascende infatti
l'incongruità squallida del contesto per rivolgerci un enigmatico appello.
Nemmeno la divinità-albero, squarciata da un enorme viadotto, si lascia violare
dalla cecità della modernità, e la trasforma a sua volta in vicolo cieco, riavvolgendo l'abuso nel proprio sacro
grembo.
Un viaggio che corre
lungo la linea del femminile, carattere dominante dell'intero percorso, e che
trova nell'elemento acquatico il suo perfetto correlato simbolico. L'artista
sceglie infatti una narrazione matrilineare che libera la dea da un ruolo
subalterno ed ancillare e la riporta alla significazione preistorica di
incarnazione della totalità ciclica della natura nella sua capacità
generatrice. Essa emerge dalle acque, a loro volta potente simbolo di un
viaggio circolare fatto di nascita, trasformazione, morte in uno stadio e
rinascita in uno differente, sorgente di vita e strumento di rigenerazione.
Specialmente se nella forma di quell'alto mare aperto che il navigante
attraversa, ricercando la propria direzione in equilibrio tra forze
contrastanti, luce e tenebra, immaginazione e razionalità. Mare come barriera
invalicabile che conduce allo smarrimento dell'Io, o come via verso un nuovo
approdo e la rinascita del Sè.
Una duplicità polare
che costituisce ogni figura archetipica e che attraversa l'intera mostra,
restituendoci un divino ambiguo, lontano dalla beatitudine definitiva e
portatore di un messaggio impenetrabile, in aperto dialogo con una soggettività
artistica inesauribilmente dialettica. Al termine del viaggio, l'artista torna
infatti a riflettersi nell'opera: un bimbo che scruta l'orizzonte dietro l'oblò
uterino dell'IO; un riflesso fantasmatico evaso dallo specchio che,
liberato dal legame con la propria immagine-madre, cammina angosciato sulla
maschera del dio; e infine, a chiudere il ciclo, una figura elfica capace di
afferrare e riorientare la propria cornice, portando con sè un'apertura che è
soglia verso un altrove inesplorato. Una bellissima metafora della creazione
artistica.
Clara Zanardi
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cm. 70x40 |
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