Donne del nostro tempo
Di Antonio Attisani
Innanzitutto
qui è all'opera l'arte dell'osservazione, da Aristotele a Brecht e
oltre posta a fondamento non soltanto del teatro ma di ogni
linguaggio e poetica. Marisa Bello pratica il gioco che consiste
nello spiare e ritrarre gli altri, soggetti inconsapevoli che poi
sfilano in affollati quaderni dove ogni volto e ogni corpo sono molto
dettagliati, segnati,
molto più che nei quadri della teoria finale: l'abbondanza di segni,
lì, è annotazione, prima glossa critica. Il gioco si trasforma poi
in una meditazione e ciò che risulta da questa meditazione è una
essenza di forma e di colore, un vedere nell'altro la propria
autobiografia: l'azione di ogni vero artista.
L’autobiografia,
la vita che corre raccontandosi ed esponendosi, è una autobiografia
corale. Non parlo mai di un “io” quando parlo di me; non trovo
mai un “me” quando indago il mio “io”. È piuttosto nella
dimensione del noi (un noi avvolto nell’anonimato di azioni e ritmi
inconsapevolmente condivisi) che sprofonda ogni consapevole
autobiografia, lasciando esalare dai propri soggetti autografi
qualcosa di terzo, quel qualcosa che viene evocato quando davvero
accade un teatro.
I
contributi raccolti in questa mostra sembrano rinviare tutti a
“qualcosa di terzo”, qualcosa che va al di là delle appartenenze
singolari e delle private biografie e che insiste come un cuneo
appuntito e tenace nelle pieghe di una immagine collettiva,
neo-comunitaria, di donne del nostro tempo.
È
la declinazione femminile di una pratica poietica,
se è vero che non si è poeti per declamare versi, ma per sentire
corpi fremere e rivoltarsi nell’atto di una creazione condivisa.
L’esperienza
del guardante-lettore ha senz'altro qualcosa di meno potente rispetto
a quella del testimone-artista, però il soggetto dello spectare
ha facoltà di “mettere in fila” (creare teoria) e rimontare i
singoli testi in una visione panoramica.
Come
in un Nātyaśāstra,
Marisa compila un catalogo di
sentimenti e posture esistenziali. Rispettando il mistero, però:
contempliamo il vivente, ma senza comprendere appieno il suo
carattere e la sua azione.
Donne
e colori, gioie e dolori. Ognuna di esse emana un colore dominante ed
è contestualizzata in un colore diffuso, un rasa
(sapore) deuteragonista. La nudità, poi: quella della pelle è
impossibile e si rivela piuttosto nei panni in cui accuratamente
ognuna di loro ha scelto di comprendersi.
Donne
a volte in posa oppure colte in istantanee, poco importa, è come se
tutte avessero scelto accuratamente come essere ritratte nell'atto di
offrire la loro più sincera ed enigmatica intimità. Non si
intravedono mai drammi evidenti, né commedie o tragedie, ma una
quotidianità piena di senso, e dunque di tutto, a varie età.
Sono
ritratte qui donne di tutti i mondi, forse a Milano, forse nella
metropolitana o in treno o al supermercato, oppure viste in sogno, o
spiate mentre si guardano velocemente allo specchio, sempre
consapevoli di essere osservate e magari ritratte, però mai disposte
a fingere di essere diverse da quello che sono, straordinariamente
normali, uniche.
I
colori a prima vista sembrano pieni, ma poi si rivelano ricchi di
sfumature, come un cielo lontanissimo di nuvole colorate: non sono
l'ultimo orizzonte ma il sipario socchiuso sull'universo.
L'arte dell'osservazione e
del ritratto diventa così una cosmologia segreta.
Le opere sono visibili QUI