olio su tela - cm. 35x50 |
Per riannodare i fili di un discorso sfilacciato
possiamo cominciare a precisare alcune parole chiave che ci aiutino a rendere
più comprensibili le problematiche fin qui poste. La prima è la parola
distanza.
DISTANZA: come già detto in altro intervento (qui) nella pratica del dipingere si può intravedere l’aspirazione ad essere capacità
di distanziazione dalle cose, dalla realtà, dal mondo e quindi di creazione di
libertà e di possibilità. Come scrive Aby Warburg “Introdurre consapevolmente una distanza tra l’Io e il mondo esterno è
ciò che possiamo senza dubbio designare come l’atto fondatore della civiltà
umana; se lo spazio così aperto diviene substrato di una creazione artistica,
allora la consapevolezza della distanza può dar luogo a una duratura funzione
sociale, la cui adeguatezza o il cui fallimento come mezzo di orientamento
intellettuale equivalgono appunto al destino della cultura umana.” Se questo
è vero allora il dipingere può essere considerato come atto rituale che
perpetua quel primigenio atto fondatore della civiltà. Un rito che si prefigura
come progetto consapevole del nostro precluderci all’intimità col mondo, con la
cosiddetta natura. Al contrario di quanto spesso si pensa, non empatia, fusione,
ma all’opposto, arte come opera di disincanto, di straniamento, nel senso di
renderci le cose estranee, meno familiari. Riprendere ciò che si vede non per
avvicinarlo ma per frapporre tra noi e questo quel qualcosa che ce lo
distanzia, allontana, rende irraggiungibile. Ed è qui che possiamo inanellare
un’altra parola chiave al nostro discorso, il termine VALORE, inteso come
valore dell’arte. Quella cosa a cui così spesso ci si richiama e che muove
masse di persone a fare la fila per ammirare un’unica opera che si vuole
ricoperta di aura sacrale. Nel congiungere questo valore con un che di sacro
sorge l’equivoco, l’inganno di poter accedere a qualcosa di oltreumano, a un
luogo che si pone al di là della storia, a cui noi possiamo sperare di accedere
appunto attraverso l’arte. Ma il valore
artistico sta invece proprio nel rendere operabili spazi di realtà che
divengono edificabili con le nostre immagini. È un operare, quello artistico,
che tende a delocalizzare il sacro da ciò che si vede, da ciò che sta di fronte
a noi, oltre i confini dell’operabile per rimanere a noi invisibile e
indicibile. Ed è per questo che l’arte
non può morire; possono essere distrutti i singoli manufatti ma è la sua
storica necessità che la fa sopravvivere, coniugandosi con le varie forme che
il procedere umano le conferisce.